venerdì 23 gennaio 2009

recensioni storia del rock

white album-beatles
ascolta qui-while my guitar gently weeps


Nell’ambito della storia discografica dei Beatles, la potenza dell’Album Bianco sta nel suo troncare di netto con l’artificiosità, l’estro immaginifico e la messa in scena psichedelica dei precedenti lavori. Niente più Sergenti Pepe e Magici Viaggi nel Mistero, l’opera è furiosamente diretta, immediata, spoglia di sovrastrutture sin dalla minimale ed epocale copertina, con quel coraggio e quella brutalità che intervengono quando qualcosa si è definitivamente rotto in una convivenza fra più persone. Non c’è niente da perdere, niente da guadagnare, i quattro non si sopportano più, le rispettive frustrazioni sono al limite, il senso di gruppo ferito a morte.
Ciascuno allora pensa per sé, i tre compositori si prendono uno studio a testa ad
Abbey Road e sviluppano le proprie idee musicali senza l’appoggio degli altri. Le poche importanti interazioni fra di loro (la martellante intro pianistica di John Lennon nella McCartneyana “Ob-la-dì Ob-la-da”, ad esempio) rispondono a pure esigenze di avanzamento lavori e, quasi, di sopravvivenza fisica: John detesta con tutto il cuore quella canzone e pesta (con efficacia bestiale) sul pianoforte all’unico scopo di sistemarne una volta per tutte l’arrangiamento e poter, finalmente, passare ad altro. La forza dei sentimenti più estremi ed intensi, pur se negativi come nell’esempio riportato, giova comunque all’espressione artistica e questo disco è letteralmente ricolmo di musica che trae la sua energia, ed il suo fascino imperituro, dallo scazzo clamoroso in essere fra i quattro.
L’insofferente indisciplina e la rabbiosa autoindulgenza determinano inoltre due marcate ed opposte caratteristiche dell’album: la prima, positiva, è la sensazionale varietà musicale, tematica e stilistica; la seconda, negativa, è l’eccessiva discontinuità qualitativa. Le tendenze di
McCartney al superficiale ed allo stilizzato disimpegno, non più tenute a freno dall’ironia e intensità di Lennon, fanno sì che la media qualitativa generale venga abbassata da suoi evanescenti contributi come “Wild Honey Pie”, “Why Don’t We Do It On The Road” o comunque modeste cose come il country “Rocky Racoon” ed “Honey Pie”. La voglia di Lennon di non essere da meno del collega, a costo di elevare alla forma canzone una qualunque banaluzza idea, è rappresentata dalla presenza di vacue situazioni come “Everybody’s Got Something To Hide Except Me And My Monkey” e “The Continuing Story Of Bungalow Bill”. Inevitabile discorso a parte merita la pseudo-avanguardistica uscita John, spalleggiato dalla Ono, rappresentata da “Revolution n° 9”: appartengo alla stragrande maggioranza di ascoltatori dei Beatles che puntualmente aziona il telecomando del proprio lettore e scivola convinta al brano successivo, interessandomi relativamente il contesto, la ragione, le peculiarità dell’inserimento di nove minuti di patchwork cacofonico in un disco di musica pop. E’ inascoltabile e tanto mi basta.
Per fortuna tali cadute di interesse sono disseminate in una pletora di luminose schegge di genialità pop: il lungo elenco comprende le intimistiche e sublimi “Blackbird” (Paul, la sua chitarra acustica ed un…metronomo! Una magia), “Julia” (John con la chitarra e il cuore in mano in irrisolta carenza affettiva. Da brividi) e “Mother Nature’s Son” nonchè “I Will” (Paul melodista superbo). Prevede per la serie “Beatles go to rock” “While My Guitar gently Weeps” (Harrison che centra il primo dei suoi tre-capolavori-tre coi Beatles, una lirica ballata rock di enorme appeal melodico), “Dear Prudence” (onirico arpeggio di Lennon fonte di infiniti futuri plagi, tenerissimo testo. Meravigliosa) e “Yer Blues”. Contempla il miglior Lennon possibile in “Happiness Is A Warm Gun”, “Sexy Sadie” e “Glass Onion”, le più intense, profonde, imprevedibili e urticanti, veri e propri manifesti di quello che avrebbero potuto diventare i Beatles negli anni settanta se avessero superato la crisi.
Ed ancora, il perfetto esercizio formale di Paul con la elegante, ritmicamente e armonicamente creativa “Martha My Dear” (una chicca), il rock’n’roll abituale del gruppo per l’occasione addizionato della nascente componente hard (in verità del tutto ostica a questi musicisti) di “Back in USRR”, “Helter Skelter” e “Birthday”. E poi…basta così, ciascuno può mettere in fila queste trenta canzoni a suo gusto personale, tenendone non meno di cinque o sei ai piani più nobili del proprio cuore.

Nessun commento: