giovedì 3 settembre 2009



BOB DYLAN
Blonde On Blonde
(Columbia) 1966
folk-rock

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Festival folk di Newport del 1965: Bob Dylan, il giovane folksinger più amato d'America, si presenta all'appuntamento accompagnato da 3/5 della Paul Butterfield Blues Band (compreso l'eccezionale chitarrista Mike Bloomfield), e inizia a lanciare bordate di musica elettrica sull'attonito pubblico, composto in massima parte da puristi del folk. In pochissimo tempo il palco diventa un campo di battaglia e Dylan è costretto ad andarsene dopo tre pezzi.; tornerà pochi minuti dopo per intonare, in rigorosa versione acustica, una profetica "It's all over now, baby blue".

Nonostante il diluvio di critiche che gli piovono addosso, Dylan porta avanti la svolta elettrica e nel settembre del 1965 incide "Highway 61 revisited", eccitante album di blues elettrico (a parte gli undici minuti acustici di "Desolation Row"), e si imbarca in un massacrante tour mondiale, che in più di un'occasione sfocia nello psicodramma collettivo. Tra le pause del tour nasce "Blonde on Blonde", capolavoro insuperato dell'arte dylaniana, nonché snodo fondamentale nell'evoluzione della musica rock.

"Blonde on blonde" è il primo album doppio della storia, in anticipo di qualche mese su "Freak Out" di Frank Zappa, e segna il definitivo passaggio dall'era del 45 giri a quella del 33 giri; dopo "Blonde on blonde", l'album non potrà più essere concepito né come una banale raccolta di singoli, né tantomeno come una serie di riempitivi che fanno da contorno all'hit single di turno, ma diventerà il frutto unitario, indivisibile nelle sue parti, della mente e dell'anima dell'artista. Nasce di fatto la magica stagione dei concept album.

Ma la vera rivoluzione copernicana Dylan la compie sui testi, fino a quel momento il punto debole della musica rock, che abbandonano il registro della canzone di protesta e diventano ermetici, metafisici e visionari. Le canzoni di "Blonde on blonde" parlano d'amore, ma lo fanno attraverso una cascata di citazioni e riferimenti che vanno da Shakespeare a Platone, dalla poesia simbolista di Rimbaud alle vecchie canzoni dei pionieri dei monti Appalachi; inoltre, molto spesso le liriche nascono da libere associazioni mentali di immagini (emblematica in questo senso "Visions of Johanna"), e hanno un tono colto e intellettuale davvero inconsueto per l'epoca.

Da un punto di vista musicale, con "Blonde on blonde", registrato a Nashville con l'ausilio di musicisti del calibro di Robbie Robertson e Al Kooper (il suo organo è il protagonista assoluto del disco), Bob Dylan assimila definitivamente la lezione folk-rock dei Byrds, sviluppa il blues elettrico di "Highway 61 revisited" e getta un ponte verso le nuove istanze psichedeliche.

Si parte con l'incedere caracollante di "Rainy day women nos 12 & 15", sorta di blues degli svitati con tanto di trombe da circo Barnum, voci sguaiate in sottofondo e un Dylan più sfasato che mai; il testo, censurato un po' ovunque, propone doppi sensi che rimandano al consumo di droga (la locuzione "Rainy day women" sta a indicare il nostro "spinello"). Il menestrello di Duluth è ormai morto e sepolto. Un'armonica stridente introduce il lento e viscerale blues "Pledging my time", che sembra uscito direttamente dai solchi di "East-West" della Paul Butterfield Blues Band. In "Visions of Johanna", Dylan, come Alice, passa attraverso lo specchio e si lascia andare al flusso di coscienza; le visioni d'amore allucinato delle cinque strofe del testo e il visionario accompagnamento dell'organo di Kooper si insinuano subdolamente nei labirinti della mente e gettano l'ascoltatore in un sublime stato di trance ipnotica. Indubbiamente il capolavoro dell'album, un volo pindarico dell'immaginazione verso l'infinito.

La successiva "One of us must know (sooner or later)" regala uno dei momenti più intensi del disco, grazie ai ricami della sei corde di Robbie Robertson e alle folate dell'organo, prima di esplodere nell'anfetaminico ritornello. L'orecchiabile e briosa "I want you" (il brano di maggior successo dell'album) è bella, colorata e ricca di suggestioni, come un arcobaleno dopo un pomeriggio di pioggia. Sullo stesso registro ironico di "Rainy Day women nos 12 &15", si muove "Leopard-skin pill-box hat", scatenato omaggio ai padri fondatori del rock 'n roll. "Stuck inside of mobile with the Memphis blues again" è una delle apocalittiche gallerie dylaniane di varia umanità, sulla scia di "Desolation Row".

Si prosegue con la dolce "Just like a woman", classica ed elegante ballata folk-rock basata su un semplice giro di chitarra e puntellata dai tocchi del pianoforte e dal discreto organo di Kooper; nel testo, Dylan ironizza sull'altra metà del cielo, il che gli procurerà non pochi problemi con il nascente movimento femminista. La leggiadra "Just like a woman" lascia il posto al vibrante blues di "Most likely you go your way and I'll go mine", desolato dialogo tra due innamorati giunti al capolinea della loro storia.

Uno dei vertici compositivi di "Blonde on Blonde" è sicuramente la scoppiettante "Absolutely sweet Marie" , lanciata in orbita dal maestoso riff dell'organo di Al Kooper e dall'incedere fluido della strumentazione, con in particolare evidenza il bel lavoro di Kenneth Buttrey alla batteria. L'arpeggio di chitarra in stile Tex-Mex conferisce un clima di estatica serenità a "4th time around", stralunata successione di bozzetti allegorici.

L'ideale quarta facciata del disco è interamente occupata dagli 11 intensissimi minuti di "Sad eyed lady of the lowlands", che, a modesto parere di chi scrive, è semplicemente la più bella canzone d'amore della storia della musica popolare: una struggente serenata folk di disarmante e geniale semplicità, che lascia segni profondi nell'anima. Per descrivere il brano, faccio mie le straordinarie parole del critico rock Paul Nelson, che di "Sad eyed lady of the lowlands" disse: "Una celebrazione della donna come opera d'arte, come figura religiosa, come oggetto di eterna maestà e meraviglia".

Così cala il sipario su un album straordinario, che negli anni diventerà l'ossessione di tutti i cantautori del globo, e che, soprattutto, rimane una preziosa testimonianza di come la musica rock possa trasformarsi in arte con la A maiuscola.