lunedì 7 dicembre 2009

Per un nuovo alfabeto (e un nuovo immaginario) maschile


Il sorrisetto: "Gli uomini buoni, hai visto mai". Il cliché: "Voi siete quelli amici delle femministe". L'alzata di spalle: "Politically correct al maschile". Oppure, detto dai ragazzi, nelle scuole: "Siamo prima di tutto persone, non maschi o femmine". In giro sembra esserci una gran voglia di farla corta: con un sacco di cose, e forse soprattutto con l'ostinazione a spiegarsi tra donne e uomini. Figurarsi tra uomini - operazione inusuale, ancora più sospetta - come fanno da anni quelli dell'associazione Maschile Plurale nei gruppi di varie città, protagonisti in questo novembre a Roma, piazza Farnese, di un'iniziativa che ha parlato di violenza maschile contro le donne (il loro primo appello è del 2006) e non solo. "Non vogliamo essere gli esperti di mascolinità in crisi. Tantomeno scoprire il lato femminile di noi stessi: è una parodia di ciò che proviamo a fare. È che arrivi a un punto in cui certe cose ti sembrano ridicole, le senti stonate. La mia fatica è la battuta di complicità maschile, la gara sul lavoro a chi si mostra di più un vero maschio. Possiamo allora inventarci un cambiamento che non annacqui le differenze tra uomini e donne? Possiamo essere padri nuovi senza essere mammi? Possiamo desiderare, sedurre, usare diversamente un corpo rinchiuso nel paradigma della virilità, guardare fino in fondo dentro la violenza che gli uomini agiscono contro le donne?" Eccole qui, per bocca di Stefano Ciccone, che di Maschileplurale fa parte e ha appena mandato in libreria Essere maschi tra potere e libertà (Rosenberg & Sellier), alcune delle parole chiave di un nuovo vocabolario degli uomini. Che della crisi (del maschile) prende atto, e ha rubato al femminismo un po' di parole per raccontarsela, "perché non ne aveva di sue". Ma che adesso "sta arrivando a disegnare un proprio punto di vista". Senza colpevolizzarsi o deprimersi: "Ciò che ci unisce tutti, gli uomini dico, è lo stare dentro un ordine di potere maschile dato per naturale. Non è una colpa dalla quale emanciparsi, ma è il lavoro da fare". Col corpo si può giocare: ma poi c'è il mercato La parola prima, quella più inquietante, sulla quale Maschileplurale ha lavorato (nei gruppi, nelle scuole), è quella che oggi nuovamente porta in piazza le donne (vedi box): violenza. La violenza maschile contro le donne che, inesorabile, riempie cronache e statistiche, spesso senza che se ne individui la radice di diseguaglianza. "È facile dire: sono contro la violenza sulle donne. Chi non lo direbbe?", aggiunge Ciccone, "Più impegnativo è capire che non è un'esplosione insensata e immotivata, che non c'è devianza, ma che siamo di fronte a un deserto delle relazioni, a una sessualità ridotta alla sua dimensione rattrappita e del dominio. Che dietro c'è un immaginario segnato dalla miseria della socialità e della sessualità maschile". E che ciò riguarda tutti gli uomini, come sostiene l'appello di Maschileplurale ripetuto in piazza Farnese. La violenza parla del corpo, altra parola del nuovo vocabolario, forse la più bisognosa di un nuovo pensiero, preda com'è di un immaginario colonizzato da stereotipi ferrei: il ritorno ai generi nei fumetti, in rete, in tv, è la premessa di una nuova subordinazione, aveva avvertito Loredana Lipperini in Ancora dalla parte delle bambine. Lo diceva per le giovani donne, ma anche per i maschi vale il pericolo di pensare che si possa giocare con gli stereotipi senza pagare dazio. "Molte ragazze me lo dicono: faccio la seduttrice ma è una cosa che controllo. Ora lo fanno anche gli uomini. L'i-dea, rischiosa, è che il mercato sia lo spazio della libertà in cui vendo, compro, scambio: corpo, desiderio, immagini". Tenersi la mano tra uomini: un po' ridicolo, però... Nei gruppi maschili si va sperimentando una comunicazione diversa, con il disagio tra maschi di mettere in campo emotività e corpo: Ciccone racconta del provare a tener- si per mano, a ballare un tango facendosi condurre, a sopportare lo sguardo ironico delle amiche, a sentirsi un po' ridicoli, anche... E a districarsi tra i simboli, come durante l'organizzazione di "Da uomo a uomo", loro prima volta in piazza: troppo fallico un unico palco, e allora videobox per autointerviste al maschile e gazebi. "Il tema del corpo per noi è decisivo. Che immagine, quale esperienza abbiamo del nostro corpo? Da un lato c'è un'idea di virilità come impulso inarrestabile, sul quale il vero uomo esercita il controllo, ma contemporaneo è il pensiero che il corpo sia fonte di una dimensione bassa: è la scissione tra sante e puttane che sta dentro di te, e ti consente di mettere in gioco con alcune, e non con altre, una parte della tua sessualità che senti sporca. Dibattito che porta anche al nodo della prostituzione. E c'è la costruzione storica che ha fondato il pensiero razionale maschile sull'estraneità al corpo". Che stress la cultura del rimorchio C'è un altro piano in cui il corpo si fa avanti: la paternità, il rapporto con il figlio, che è già esperienza quotidiana per molti giovani padri. Crollato il modello del pater familias, non è facile costruire un linguaggio della cura senza scimmiottare le mamme o, peggio, cadere nel revanscismo maschile contro un presunto strapotere delle donne. è utile, dice Ciccone, scommettere sul cambiamento partendo anche dalla frustrazione maschile nella relazione con i figli, molto evidente nelle rivendicazioni delle associazioni dei padri separati, come nella relazione sessuale, dominata dall'obbligo di prestazione. "Si parla molto poco dell'insoddisfazione maschile nel sesso, che è in aumento. Il luogo comune dice di una sessualità maschile automatica, banale. Ci siamo sempre detti che gli uomini non si fanno domande sul piacere della loro compagna, oggi verrebbe da chiedersi quanto le donne lo diano per scontato nel partner. Quanto è difficile per un uomo, il cui immaginario è così colonizzato, riconoscere con se stesso, figurarsi cogli altri, che andare a letto con quella bellissima, e così am- bita, non è stato poi questo granché? Questa è l'insoddisfazione che mi fa simile al tizio che incontro in palestra". Una volta smontati i codici coi quali, da maschio, si cresce, non c'è un rischio di paralisi, di anestesia del desiderio? Cosa resta, alla fine, della seduzione, del gioco antico tra uomini e donne? "Se non è uno slogan, resta la libertà. Non si tratta di disciplinare il desiderio, ridursi alle buone maniere, ma di capire cosa ci attrae veramente di una donna. In molte storie di violenza gli uomini raccontano la rabbia che suscita in loro la bellezza femminile, perché incrina il mito maschile dell'autosufficienza. Salvare la tensione tra gli uomini e le donne si può: a patto di avere un nuovo modo di guardarsi. E guardarle". A distanza, qualcuno pare dargli ragione. Gli studenti di Harvard, secondo Newsweek: l'80% di loro sostiene di non poterne più, di essere oppresso "dalla cultura onnipresente e dominante del "rimorchio"". Lo dicono le femmine, e finalmente anche i maschi.

Un anno in giro per l'Italia Serena Dandini ha fatto uno spot alla radio, il sito torniamoinpiazza.it è stato il collettore di appelli e adesioni: e oggi, 28 novembre, le donne - quelle dei centri antiviolenza, delle associazioni, dei collettivi (anche le più giovani), dei gruppi lesbici - daranno vita a Roma a un corteo che parte alle 14 da piazza della Repubblica, per arrivare a piazza San Giovanni. Intorno al 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, molti gli appuntamenti ,a cominciare dalla conclusione - in piazza della Loggia a Brescia - della staffetta dell'Udi che per un anno ha girato l'Italia con la sua anfora, organizzando incontri nelle sale comunali, nelle carceri, nelle università, riuscendo così a raccogliere un milione di messaggi di donne italiane e straniere. Per l'appuntamento di oggi un appello breve: in piazza contro la violenza maschile, per la civiltà della relazione tra i sessi.


mercoledì 2 dicembre 2009

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giovedì 3 settembre 2009



BOB DYLAN
Blonde On Blonde
(Columbia) 1966
folk-rock

ascolta qui

Festival folk di Newport del 1965: Bob Dylan, il giovane folksinger più amato d'America, si presenta all'appuntamento accompagnato da 3/5 della Paul Butterfield Blues Band (compreso l'eccezionale chitarrista Mike Bloomfield), e inizia a lanciare bordate di musica elettrica sull'attonito pubblico, composto in massima parte da puristi del folk. In pochissimo tempo il palco diventa un campo di battaglia e Dylan è costretto ad andarsene dopo tre pezzi.; tornerà pochi minuti dopo per intonare, in rigorosa versione acustica, una profetica "It's all over now, baby blue".

Nonostante il diluvio di critiche che gli piovono addosso, Dylan porta avanti la svolta elettrica e nel settembre del 1965 incide "Highway 61 revisited", eccitante album di blues elettrico (a parte gli undici minuti acustici di "Desolation Row"), e si imbarca in un massacrante tour mondiale, che in più di un'occasione sfocia nello psicodramma collettivo. Tra le pause del tour nasce "Blonde on Blonde", capolavoro insuperato dell'arte dylaniana, nonché snodo fondamentale nell'evoluzione della musica rock.

"Blonde on blonde" è il primo album doppio della storia, in anticipo di qualche mese su "Freak Out" di Frank Zappa, e segna il definitivo passaggio dall'era del 45 giri a quella del 33 giri; dopo "Blonde on blonde", l'album non potrà più essere concepito né come una banale raccolta di singoli, né tantomeno come una serie di riempitivi che fanno da contorno all'hit single di turno, ma diventerà il frutto unitario, indivisibile nelle sue parti, della mente e dell'anima dell'artista. Nasce di fatto la magica stagione dei concept album.

Ma la vera rivoluzione copernicana Dylan la compie sui testi, fino a quel momento il punto debole della musica rock, che abbandonano il registro della canzone di protesta e diventano ermetici, metafisici e visionari. Le canzoni di "Blonde on blonde" parlano d'amore, ma lo fanno attraverso una cascata di citazioni e riferimenti che vanno da Shakespeare a Platone, dalla poesia simbolista di Rimbaud alle vecchie canzoni dei pionieri dei monti Appalachi; inoltre, molto spesso le liriche nascono da libere associazioni mentali di immagini (emblematica in questo senso "Visions of Johanna"), e hanno un tono colto e intellettuale davvero inconsueto per l'epoca.

Da un punto di vista musicale, con "Blonde on blonde", registrato a Nashville con l'ausilio di musicisti del calibro di Robbie Robertson e Al Kooper (il suo organo è il protagonista assoluto del disco), Bob Dylan assimila definitivamente la lezione folk-rock dei Byrds, sviluppa il blues elettrico di "Highway 61 revisited" e getta un ponte verso le nuove istanze psichedeliche.

Si parte con l'incedere caracollante di "Rainy day women nos 12 & 15", sorta di blues degli svitati con tanto di trombe da circo Barnum, voci sguaiate in sottofondo e un Dylan più sfasato che mai; il testo, censurato un po' ovunque, propone doppi sensi che rimandano al consumo di droga (la locuzione "Rainy day women" sta a indicare il nostro "spinello"). Il menestrello di Duluth è ormai morto e sepolto. Un'armonica stridente introduce il lento e viscerale blues "Pledging my time", che sembra uscito direttamente dai solchi di "East-West" della Paul Butterfield Blues Band. In "Visions of Johanna", Dylan, come Alice, passa attraverso lo specchio e si lascia andare al flusso di coscienza; le visioni d'amore allucinato delle cinque strofe del testo e il visionario accompagnamento dell'organo di Kooper si insinuano subdolamente nei labirinti della mente e gettano l'ascoltatore in un sublime stato di trance ipnotica. Indubbiamente il capolavoro dell'album, un volo pindarico dell'immaginazione verso l'infinito.

La successiva "One of us must know (sooner or later)" regala uno dei momenti più intensi del disco, grazie ai ricami della sei corde di Robbie Robertson e alle folate dell'organo, prima di esplodere nell'anfetaminico ritornello. L'orecchiabile e briosa "I want you" (il brano di maggior successo dell'album) è bella, colorata e ricca di suggestioni, come un arcobaleno dopo un pomeriggio di pioggia. Sullo stesso registro ironico di "Rainy Day women nos 12 &15", si muove "Leopard-skin pill-box hat", scatenato omaggio ai padri fondatori del rock 'n roll. "Stuck inside of mobile with the Memphis blues again" è una delle apocalittiche gallerie dylaniane di varia umanità, sulla scia di "Desolation Row".

Si prosegue con la dolce "Just like a woman", classica ed elegante ballata folk-rock basata su un semplice giro di chitarra e puntellata dai tocchi del pianoforte e dal discreto organo di Kooper; nel testo, Dylan ironizza sull'altra metà del cielo, il che gli procurerà non pochi problemi con il nascente movimento femminista. La leggiadra "Just like a woman" lascia il posto al vibrante blues di "Most likely you go your way and I'll go mine", desolato dialogo tra due innamorati giunti al capolinea della loro storia.

Uno dei vertici compositivi di "Blonde on Blonde" è sicuramente la scoppiettante "Absolutely sweet Marie" , lanciata in orbita dal maestoso riff dell'organo di Al Kooper e dall'incedere fluido della strumentazione, con in particolare evidenza il bel lavoro di Kenneth Buttrey alla batteria. L'arpeggio di chitarra in stile Tex-Mex conferisce un clima di estatica serenità a "4th time around", stralunata successione di bozzetti allegorici.

L'ideale quarta facciata del disco è interamente occupata dagli 11 intensissimi minuti di "Sad eyed lady of the lowlands", che, a modesto parere di chi scrive, è semplicemente la più bella canzone d'amore della storia della musica popolare: una struggente serenata folk di disarmante e geniale semplicità, che lascia segni profondi nell'anima. Per descrivere il brano, faccio mie le straordinarie parole del critico rock Paul Nelson, che di "Sad eyed lady of the lowlands" disse: "Una celebrazione della donna come opera d'arte, come figura religiosa, come oggetto di eterna maestà e meraviglia".

Così cala il sipario su un album straordinario, che negli anni diventerà l'ossessione di tutti i cantautori del globo, e che, soprattutto, rimane una preziosa testimonianza di come la musica rock possa trasformarsi in arte con la A maiuscola.

sabato 31 gennaio 2009

MASSIVE ATTACK-MEZZANINE


massive attack-mezzanine

ascolta qui angel

1998 da un anno è gia uscito il capolavoro dei radiohead ok computer. anno confuso britney spears è ancora un angioletto propaganda della verginita e del perbenismo repubblicano, george bush(cespuglio) non è ancora presidente, e le mode cominciano a sfaldarsi in un calderone di passato presente e futuro.la mania per il fine millennio rimbecillisce tutti e crea occasioni di guadagno per alcuni e i massive attack escono fuori con questo disco che dalle sue sonorità ci racconta bene le angoscie di fine millennio.
influenze rap,dub,psichedeliche,trip hop, ci condiscono l'ambiente metropolitano non piu con la frenesia della jugle o della drum n bass, ma con la rilassatezza e la rassegnazione di fine millennio in pieno stile cinematografico, in attesa di quel cambiamento/catastrofe/annullamento delle, avanguardie, stili,creatività; che sara il nuovo millennio (11/9/2001).
l'album si apre con la canzone angel suonata tutta sui bassi ovattati, distanti, quasi a riprendere il rumore della terra(o delle torri che crollano da distante)innovazioni elettroniche sintetizzatori.
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Sono brani di media lunga durata attorno ai cinque minuti nei quali si concentrano introspezione, mistero, oscurità e depressione proprio come nella prima track. I Massive Attack pertanto producono il loro album più rock allontanandosi dalla musica techno e lounge che aveva caratterizzato i vecchi lavori. Nei precedenti due full-length, avevano basato infatti la loro ricerca sull’aspetto ritmico. Questo è invece un’opera profonda, di analisi interiore, che vuole andare a ricercare ispirazione e verità nei meandri del pensiero. Atmosfere irreali elettrizzanti che vengono riscaldate dalla voce reggae di Horace Handy e dall’eccezionale voce di Elizabeth Fraser che, con la sua voce eterea trasfigura, ogni situazione come nella magnifica Tear Drop, vero capolavoro in questo genere. Il battito iniziale è proprio come un battito di un cuore che da incipit agli altri sturmenti, a un riff nascente di chitarra e al vocal.

Ogni cosa si estende in un quadro di serenità, celestiale, rendendo questo brano un classico indiscusso. Persiste sempre un timbro ipnotico in ogni song che estrania l’ascoltatore da ogni cosa. Oltre a questa caratteristica, ormai consolidata nel combo inglese, si ha anche un particolare accento delle chitarre e delle composizioni in generali più complesse e meditative. Si passa poi attraverso la psichedelica Inertia Creeps, la dolce e leggerissima Exchange, la riflessiva Dissolved Girl. Queste song rispecchiano ognuna un genere più di un'altra, esprimendo del resto le differenti differenze musicali dei membri della formazione inglese.

Continuando l’ascolto si apprezza la goticheggiante Man Next Door e la successiva sonnolenta Black Milk, che, con la fragile e appena sussurrata voce femminile, incanta l’ascoltatore in una sorta di sogno romantico. A seguire la title-track. Mezzanine inizia in un’atmosfera claustrofobica, che trasmette ansia per i colpi soffocati di batteria e per le profonde voci maschili. Il tutto in un clima di stordimento generale. Emerge un senso allucinogeno, di alienazione dalla realtà, con suoni narcotizzanti. E proprio su questi toni insistono le ultime due songs dell’album, Group Four e (Exchange), modificata e cantata. In questo modo si conclude uno dei lavori più innovativi del fine millennio che ha rivoluzionato non solo il proprio genere, ma tutto il mondo della musica, riuscendo nella difficile impresa di conciliare generi apparentemente inconciliabili.


venerdì 30 gennaio 2009

gotan project

amor porteno ascolta qui

gotan project, anagramma di "progetto tangò" sono una formazione parigina che dal 2001 sono riusciti, mescolando sagaceamente elettronica e tango, a sdoganare quel genere (il tango) che sa tanto di liscio da balera e che quindi è sempre stato snobbato dagli ambiti pseudo indi alternativ che 2 coglioni.
il disco lunatico è il secondo disco della formazione e gia dal primo pezzo "amor porteno" la carica tango psichedelica elettronica si sente tutta.
insomma un taglio compositivo e influenzale molto degno in questa epoca di pseudo distruttori di confini annoiati e indipendenti.
per non parlare del pegno che devono al film "ultimo tango a parigi" di bertolucci di cui ne pigliano lo spirito trash e lo ricompongono in stili che potrebbero benissimo essere intesi in un film di tarantino, magari in una scena dove il cattivo, annebbiato da un trip ed un omicidio appena compiuto, si lascia andare in deliri di consapevolezza e rimorso.
insomma se vi piacciono le contaminazioni e vi annoiano gli indi con la loro arroganza e insoddisfazione nel futuro (contornati da occhiali raiban e vestiti alla ispettore derrick)ascoltatevi i gotan project e sperate in un mondo simile a questo. allah è grande e gheddafi è il suo profeta

martedì 27 gennaio 2009

country folk


johnny cash live at folsom prison

ascolta qui-folson prison


All’epoca in cui l’America si dibatteva per i grandi temi scendendo in piazza con il movimento per i diritti civili, quello pacifista, quello femminista e le sempre più frequenti proteste studentesche, c’era chi come Johnny Cash preferiva scavare nella parte più intestina del paese.
Da sempre avezzo a storie intrise di vissuto e a cantare personaggi in lotta col sistema e con sé stessi, Cash si era risollevato dalla tossicodipendenza convogliando a giuste nozze con June Carter: tra una conversione religiosa che cominciava a sbocciare e qualche disco troppo ripulito, ritrovò lucidità e familiarità con la sua musica. La leggenda narra che furono le molte lettere ricevute dai detenuti a spingerlo a registrare questo live, ma il carcere era già un luogo a lui familiare, avendovi “soggiornato”, suonato e ambientato parecchie canzoni.
Ne è prova una delle chicche del disco, “Greystone chapel”, pezzo composto da un forzato di Folsom che Cash aveva sentito la sera prima del concerto.
La scaletta brilla per la capacità di Cash di padroneggiare il pubblico instaurando un dialogo mai compiaciuto da cui molti cantautori dovrebbero imparare. Non a caso il film “Walk the line” ricrea alcune scene di questo 13 gennaio 1968: esemplare la battuta sull’acqua che è un rimando all’uso dell’alcool e allo stesso tempo una critica all’organizzazione del penitenziario.
Cash è spontaneo anche nei momenti più preparati e quel “Hello, I’m Johnny Cash” con cui si presenta al microfono è simbolo di uno stile diretto ed essenziale.
Sferzato da una band composta tra gli altri da Carl e Luther Perkins alle chitarre e dalla Carter Family ai cori, propone una serie di brani a tema sul carcere: spiccano “25 Minutes To Go” e un paio di canzoni d’amore a dir poco sarcastiche come “Dirty old egg-suckin' dog” e “Flushed from the bathroom of your heart”. La forza che il suo country-folk aveva all’epoca si sente invece in “Orange blossom special”, “I got stripes” e “The legend of John Henry's hammer”.
“Jackson” è eseguita in duetto con June Carter, la cui interpretazione rauca esce dagli schemi del country allo stesso modo in cui la sua relazione con Cash aveva osato infrangere le regole del perbenismo americano.
“At Folsom Prison” è stato ristampato nel 1999 con l’aggiunta di tre bonus-track, un’introduzione di Steve Earle e una lettera scritta di suo pugno dallo stesso Cash.

venerdì 23 gennaio 2009

recensioni storia del rock

white album-beatles
ascolta qui-while my guitar gently weeps


Nell’ambito della storia discografica dei Beatles, la potenza dell’Album Bianco sta nel suo troncare di netto con l’artificiosità, l’estro immaginifico e la messa in scena psichedelica dei precedenti lavori. Niente più Sergenti Pepe e Magici Viaggi nel Mistero, l’opera è furiosamente diretta, immediata, spoglia di sovrastrutture sin dalla minimale ed epocale copertina, con quel coraggio e quella brutalità che intervengono quando qualcosa si è definitivamente rotto in una convivenza fra più persone. Non c’è niente da perdere, niente da guadagnare, i quattro non si sopportano più, le rispettive frustrazioni sono al limite, il senso di gruppo ferito a morte.
Ciascuno allora pensa per sé, i tre compositori si prendono uno studio a testa ad
Abbey Road e sviluppano le proprie idee musicali senza l’appoggio degli altri. Le poche importanti interazioni fra di loro (la martellante intro pianistica di John Lennon nella McCartneyana “Ob-la-dì Ob-la-da”, ad esempio) rispondono a pure esigenze di avanzamento lavori e, quasi, di sopravvivenza fisica: John detesta con tutto il cuore quella canzone e pesta (con efficacia bestiale) sul pianoforte all’unico scopo di sistemarne una volta per tutte l’arrangiamento e poter, finalmente, passare ad altro. La forza dei sentimenti più estremi ed intensi, pur se negativi come nell’esempio riportato, giova comunque all’espressione artistica e questo disco è letteralmente ricolmo di musica che trae la sua energia, ed il suo fascino imperituro, dallo scazzo clamoroso in essere fra i quattro.
L’insofferente indisciplina e la rabbiosa autoindulgenza determinano inoltre due marcate ed opposte caratteristiche dell’album: la prima, positiva, è la sensazionale varietà musicale, tematica e stilistica; la seconda, negativa, è l’eccessiva discontinuità qualitativa. Le tendenze di
McCartney al superficiale ed allo stilizzato disimpegno, non più tenute a freno dall’ironia e intensità di Lennon, fanno sì che la media qualitativa generale venga abbassata da suoi evanescenti contributi come “Wild Honey Pie”, “Why Don’t We Do It On The Road” o comunque modeste cose come il country “Rocky Racoon” ed “Honey Pie”. La voglia di Lennon di non essere da meno del collega, a costo di elevare alla forma canzone una qualunque banaluzza idea, è rappresentata dalla presenza di vacue situazioni come “Everybody’s Got Something To Hide Except Me And My Monkey” e “The Continuing Story Of Bungalow Bill”. Inevitabile discorso a parte merita la pseudo-avanguardistica uscita John, spalleggiato dalla Ono, rappresentata da “Revolution n° 9”: appartengo alla stragrande maggioranza di ascoltatori dei Beatles che puntualmente aziona il telecomando del proprio lettore e scivola convinta al brano successivo, interessandomi relativamente il contesto, la ragione, le peculiarità dell’inserimento di nove minuti di patchwork cacofonico in un disco di musica pop. E’ inascoltabile e tanto mi basta.
Per fortuna tali cadute di interesse sono disseminate in una pletora di luminose schegge di genialità pop: il lungo elenco comprende le intimistiche e sublimi “Blackbird” (Paul, la sua chitarra acustica ed un…metronomo! Una magia), “Julia” (John con la chitarra e il cuore in mano in irrisolta carenza affettiva. Da brividi) e “Mother Nature’s Son” nonchè “I Will” (Paul melodista superbo). Prevede per la serie “Beatles go to rock” “While My Guitar gently Weeps” (Harrison che centra il primo dei suoi tre-capolavori-tre coi Beatles, una lirica ballata rock di enorme appeal melodico), “Dear Prudence” (onirico arpeggio di Lennon fonte di infiniti futuri plagi, tenerissimo testo. Meravigliosa) e “Yer Blues”. Contempla il miglior Lennon possibile in “Happiness Is A Warm Gun”, “Sexy Sadie” e “Glass Onion”, le più intense, profonde, imprevedibili e urticanti, veri e propri manifesti di quello che avrebbero potuto diventare i Beatles negli anni settanta se avessero superato la crisi.
Ed ancora, il perfetto esercizio formale di Paul con la elegante, ritmicamente e armonicamente creativa “Martha My Dear” (una chicca), il rock’n’roll abituale del gruppo per l’occasione addizionato della nascente componente hard (in verità del tutto ostica a questi musicisti) di “Back in USRR”, “Helter Skelter” e “Birthday”. E poi…basta così, ciascuno può mettere in fila queste trenta canzoni a suo gusto personale, tenendone non meno di cinque o sei ai piani più nobili del proprio cuore.

mercoledì 21 gennaio 2009

recensione progressive rock

yes: fragile

ascolta qui roundabout

ascolta qui mood for a day

Gli Yes sono sicuramente uno dei gruppi più rappresentativi del cosiddetto progressive rock inglese d’inizio anni '70 insieme a Genesis, King Crimson e Pink Floyd. "Fragile", disco datato 1972, è sicuramente il loro capolavoro, un album che riesce ad amalgamare rock e musica classica con l’apporto di una tecnica superba, mai fine a se stessa ma a servizio della melodia e della canzone. L’opener del disco è la splendida Roundabout, introdotta da un delicato arpeggio di chitarra classica di Steve Howe che esplode in una trascinante song da otto minuti. Gli Yes sono dei virtuosi e si sente; ma chi si fa notare in particolare qui è il basso di Chris Squire e le tastiere di Rick Wakeman che ci regala un grande assolo di Hammond nella parte centrale. Altre tre canzoni propriamente dette sono: South Side Of The Sky in cui la chitarra di Howe è molto più rock del solito e Wakeman ci delizia con una bella parte solista stavolta di pianoforte; Long Distance Runaround che i tre minuti diverte ma non convince appieno; ma il vero capolavoro è la conclusiva Heart Of The Sunrise: undici minuti di controtempi parti quasi jazzate e intrecci strumentali da far venire il capogiro ma senza mai scadere nell'autocompiacimento. Le altre tracks sono poco più che delle prove soliste di ogni componente. In questo frangente chi fa la figura migliore è sicuramente Steve Howe in Mood For A Day in cui diventa un moderno menestrello e costruisce dolci arpeggi di chitarra. Wakeman si cimenta invece con una rilettura di un pezzo classico di Brahms, Anderson gioca con la propria voce in We Have Heaven mentre Bill Bruford concede ben pochi ma strabilianti secondi di tempi batteristici in controtempo in Five Per Cent For Nothing. Chris Squier in The Fish (che è una sorta di coda di Long Distance...) sperimenta con le distorsioni del suo basso. In definitiva Fragile è un capolavoro di prog rock anni '70 di scuola inglese e lo consiglio a chi purtroppo non ha ancora avuto il piacere di ascoltarlo e penso possa essere un buon inizio per chi voglia avvicinarsi a questo genere senza rimanere deluso.

giovedì 15 gennaio 2009


Architecture in Helsinki

ascolta qui-the owls go

Architecture in Helsinki è il nome di un gruppo musicale alternativo, formatosi nel 2000 e originario di Melbourne (Australia). I componenti sono Cameron Bird, James Cecil, Gus Franklin, Jamie Mildren, Sam Perry, e Kellie Sutherland. La loro musica si avvale di una vasta gamma di strumenti, dai più rari come sintetizzatori analogici, campionatori e glockenspiel, fino agli strumenti classici come tromba, tuba, trombone, clarinetto e flauto dolce, e alle più convenzionali chitarra, basso e batteria. il loro suono è molto naif, bambinesco. nel primo album fingers crossed si possono sentire suoni di scope che strisciano, bolle di sapone che scoppiano,rumori di pantofole e sussurri di bimbi La band è stata protagonista di diversi tour, nazionali e internazionali; fra gli altri, negli Stati Uniti hanno suonato con i Death Cab for Cutie ed i Clap Your Hands Say Yeah e hanno aperto i concerti di David Byrne, The Polyphonic Spree, Yo La Tengo e Belle & Sebastian

album consigliato(il piu bello): finger crossed (il primo)

martedì 13 gennaio 2009

dungen- tio bitar

dungen tio bitar, 2007 svezia genere psichedelia
familija ascolta qui

Adoro i gruppi che caratterizzano il proprio suono nei minimi dettagli: che studiano su ciascun aspetto del "come suonare" prima ancora di porsi la questione del "cosa". E adoro i Dungen, che della caratterizzazione hanno fatto il loro punto di forza a partire dalla ferma intenzione di proporre la loro musica cantandola tutta nella lingua natia, lo svedese.

Se il precedente "Ta Det Lugnt" li aveva segnalati al grande pubblico per l'eccelsa qualità compositiva, il nuovo "Tio Bitar" frantuma e sorpassa il record. Un capolavoro di illusionismo sonoro ed un gioco di citazioni che richiama le migliori influenze della musica rock 60-70 amalgamandole con assoluta personalità ed inventiva: Jethro Tull, Jimi Hendrix, Blue Cheer, Genesis, Jefferson Airplane, Can, Byrds, Pink Floyd, Beatles, May Blitz, Grand Funk Railroad e tutta la psichedelia sotterranea dei sixties, riproposti con l'onestà pratica di quella che a me sembra la miglior band revival del 21° secolo. Perché registra il tutto con una dovizia maniacale tra lo stereo ed il mono, l'effetto acustico del riverbero naturale e quella resa "analogica" del suono che fa di ogni strumento un organo caldo, potente, arrotato; come il basso mai distorto e sempre a tutto tondo, oppure la batteria vibrata, con quel suono "a tonfo" tipico delle percussioni Gretsch.

Qua e là un piano hammond, un sitar ed un flauto traverso a scomporre gli scenari. E a valanga, cambi di tono e ritmo che piovono quando meno te li aspetti tra intrecci melodici impossibili ed acustiche ammalianti che sfiorano tante volte l'ampollosità del prog soltanto per poi dipanarsi tra frustate di elettrica, strabordii di basso e ultracolpi di batteria sempre in primo piano, esaltata nel ruolo di traccia-guida.
E poi via, la miglior resa su disco per la sezione ritmica da dieci anni a questa parte. Che vien voglia di telefonare in Svezia per chieder loro dove hanno posizionato i microfoni, come hanno tirato le pelli, quali amplificatori hanno usato e come hanno lavorato sull'isolamento acustico di ciascuno strumento. E a suggellare quest'incantesimo di suoni perfetti, la musicalità della voce, che oltre le apparenti forzature linguistiche obbliga chi ascolta a riconvertire tutte le modalità di comprensione e semplicemente... lasciarsi andare. E' gioia pura poter cantare "uuhm ende pufta latta bendiii vairendedòr" (che è come chiedersi: quanto siete creativi mentre la mattina cantate farfugliando sotto la docci